La vita (e la morte) di quel bambino non è stata vana

siriaAd inizio giugno La Stampa decise di pubblicare un reportage fotografico di Bulent Kilic, fotografo turco della AFP, per raccontare tutto il dramma umano della popolazione siriana che scappa dalla furia dell’ISIS tentando di entrare alla frontiera turca. Foto di forte impatto che non sono nulla rispetto a quella che stiamo vedendo in queste ore con il cadavere di un bambino siriano di due anni in riva al mare sulla spiaggia di Kos.

Una foto che è un pugno nello stomaco. Rimanere indifferenti è impossibile. Chi ha un figlio –magari proprio di quell’età- non può non vivere un profondo disagio osservando quell’immagine. Personalmente l’ho vista per la prima volta su twitter nel bel mezzo di una conferenza stampa -in un bellissimo hotel di Londra- su quali farmaci è meglio utilizzare nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Uno schiaffo. La vita di un bambino interrotta così precocemente nel tentativo di scappare dall’inferno alla ricerca di un luogo dove vivere in pace. Cosa resta ora di quel bambino?

Ai bollettini di guerra siamo tutti abituati. Così come siamo abituati al male. Il nostro cuore pare anestetizzato, incapace di sentire. Quando muore un bambino il primo pensiero è “perché? Perché proprio lui? Cosa ha fatto di male? Se un Dio c’è perché permette ciò?”. Tutte queste domande sono lecite, sono umane. Non capiremo mai fino in fondo se c’è una risposta. Eppure pensando a quel bambino mi sento di affermare che la sua vita –e la sua morte- non sono state vane.

Credo che quel bambino sia per tutti noi lo strumento che per almeno un attimo ci ha reso uomini. Ci ha riportato alla realtà, ha agito da antidoto alla durezza del nostro cuore che cerca sempre e solo una “tranquillità di facciata” e che fa finta di non vedere il dramma che milioni di persone stanno vivendo. Quelle persone che qualcuno crede possano rovinare il nostro già precario equilibrio.

Non so se tra qualche giorno tutto sarà come prima. Probabilmente, sommersi come siamo dalle informazioni, molti si saranno dimenticati. Altri invece se lo ricorderanno per sempre e dovranno dire grazie a quel bambino per averli fatti tornare uomini. Nei giorni scorsi ho assistito ad un incontro in cui un dottore ha detto che per essere dei grandi medici bisogna sapersi commuovere e condividere il dolore dell’altro. Ecco, il punto è proprio questo: a qualsiasi livello, dalla politica al più umile dei lavori, questa condizione è necessaria. Solo così riusciremo ad affrontare la vita. Solo con quello sguardo riusciremo ad affrontare umanamente le sfide che oggi ci troviamo davanti. La morte di quel bambino ha preso significato.